ELEZIONI 2018: LA PROPOSTA DELLA C.L.N.

21.4.18

La CLN sospende temporaneamente le attività

La CLN nacque all’indomani del referendum del 4 dicembre 2016. Sulla base di un’innovativa fisionomia confederativa essa si strutturava come contenitore pluralista di forze sovraniste costituzionali e patriottiche con l’obiettivo di mettere in campo un’azione politica sistematica contro la visione europeista, neoliberista e globalista dominante. La CLN riusciva in effetti a integrare e coinvolgere diverse realtà già presenti nel panorama italiano svolgendo diverse iniziative politiche e culturali.

Che il Paese fosse alle porte di una svolta, che vi fosse una maggioranza di cittadini non più prigioneri della narrazione dei dominanti è stato ampiamante dimostrato dalle elezioni del 4 marzo. Fu sulla base di questa consapevolezza che nel giugno 2017 nella CLN maturò la convinzione che fosse necessario costruire, in vista delle elezioni regionali siciliane del novembre e di quelle nazionali del marzo 2018, un polo elettorale indipendente e unitario del patriottismo costituzionale. Una minoranza contestò questa proposta e abbandonò la CLN.

Lanciato in settembre l’Appello “per un’Italia ribelle e sovrana” la CLN tentò in ogni modo, in vista del 4 marzo, di raggruppare forze per dare vita ad una lista che ponesse al centro la conquista della sovranità nazionale e l’applicazione della Costituzione. L’insuccesso di questi sforzi (che si aggiungeva al fallito tentativo di presentare una lista in Sicilia) spinse una parte ad abbandonare la CLN per aderire alla “Lista del Popolo”.

Ad un anno di distanza dalla sua fondazione dobbiamo prendere atto di non essere riusciti a mettere insieme un nucleo solido di forze che potessero convergere su un programma comune, superando le differenze e i personalismi politici in vista di un obiettivo che, a tutt’oggi, mantiene un grande potenziale.

Il terremoto elettorale del 4 marzo, proprio perché ha dimostrato che non esiste, ne' a sinistra ne' a destra, una forza popolare davvero alternativa che avesse chiari i punti fondamentali di uscita dall’euro e dall’Unione Europea e di attuazione di politiche pubbliche sovrane di intervento statale, è stata una occasione perduta per le minoranze del patriottismo costituzionale.

Alla luce di quanto sopra, poiché non sussistono al momento le condizioni di una sua azione efficace (sono nel frattempo scomparsi molti dei soggetti politici che si puntava a confederare), la CLN sospende temporaneamente le sue attività. Chi ne fa ancora parte, visto il momento particolarissimo in cui si trova il nostro Paese, continuerà a collaborare, dando priorità all’elaborazione di un pensiero e di modalità d’azione politica che siano al contempo costruttivamente alternativi all'attuale disegno socio economico dei dominanti e capaci di attivare e mobilitare nuove energie, guardando quindi al di là del perimetro del “sovranismo”.


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7.3.18

ASTENSIONE: PER LA CRONACA....

L’affluenza degli elettori al voto di domenica 4 marzo per rinnovare il Parlamento è stata del 72,9% per la Camera e appena più alta (72,99%) per il Senato. È stata l’affluenza più bassa per le elezioni politiche nella storia repubblicana del nostro Paese: nel 2013, quando si poteva votare anche il lunedì mattina, l’affluenza era arrivata a poco più del 75% e aveva portato il numero di votanti per la prima volta in Italia sotto l’80%. Nel 1948 si superava il 92%.

Gli italiani che avrebbero avuto il diritto di votare erano quest’anno 46.605.046 ma quelli che si sono effettivamente recati ai seggi sono stati appena meno di 34 milioni: 33.978.719. In altri termini, più di 12 milioni e mezzo di italiani sono rimasti a casa e non hanno votato.

Dei 34 milioni che hanno ritirato la scheda, più di 350 mila la hanno restituita (per il voto alla Camera) senza compilarla e in totale le schede che sono state annullate sono oltre un milione: gli italiani che in effetti non hanno votato sono dunque più di 13 milioni e mezzo. E quelli che hanno votato meno di 33 milioni.

Le percentuali sono molto diverse a seconda delle Regioni e al loro interno. Quest’anno il Veneto ha strappato di poco all’Emilia Romagna il primato della Regione con la più alta affluenza al voto: 78,8% contro 78,3%, ma cinque anni fa entrambe le Regioni erano al di sopra dell’80%. A Padova e Vicenza sono andate alle urne anche questa volta più di otto persone su dieci, come anche nella provincia di Bergamo, ma sono ormai eccezioni. In Lombardia la percentuale dei votanti si è fermata al 77%, in Piemonte si scende al 75%.

L’affluenza diminuisce spostandosi verso il Sud. Nel Lazio sfiora il 73%, con un calo di cinque punti negli ultimi cinque anni. In Campania si scende al 67,8, cioè solo due persone su tre votano mentre la terza rimane a casa, anche se la situazione è quasi uguale a quella del 2013.

Il record negativo spetta alla Sicilia, dove ha votato solo il 63% delle persone, e alla Calabria, dove si arriva al 63,5%. Nelle province di Agrigento e Caltanissetta la percentuale si abbassa attorno al 60% ma ci sono anche zone della Sicilia, come Palma di Montechiaro, Lampedusa e Linosa, dove la percentuale è già sotto il 50%: è andata a votare meno di una persona su due.

* Fonte: LA STAMPA

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26.2.18

AD UNA SETTIMANA DAL VOTO di Leonardo Mazzei



Tre scenari, uno peggiore dell'altro. 
Ma per fortuna tutti instabili...

La mia previsione per il 4 marzo resta quella di due settimane fa. Anzi, queste ultime battute della campagna elettorale mi fanno sembrare ancor più probabile una maggioranza assoluta - in seggi ovviamente, che in voti non se ne parla proprio - della coalizione di destra. Vittoria, che se non è ancora del tutto certa, è solo per le contraddizioni di quella coalizione e per la pittoresca condizione del suo leader zombie.

Se alla destra dovessero mancare i numeri, si passerebbe subito all'opzione numero due, quel governo Renzi-Berlusconi per il quale è stato concepito e poi partorito il Rosatellum nell'autunno scorso. E' l'opzione più cara a Berlino e Bruxelles, quella per cui spingono i potentati nazionali, e che lo stesso Buffone di Arcore preferirebbe alla faticosa coalizione con l'ambizioso Salvini.

Se anche questa coalizione non avesse i seggi necessari, ecco che spunterebbe l'opzione numero tre, un accordo M5S-Pd-LeU, un patto che potrebbe saldarsi solo con la rapida defenestrazione dell'attuale segretario piddino.

A mio parere non serve dunque strologare sulle formule magiche che piacciono tanto ai giornalisti, tipo quella del "governo del presidente", per non parlare dell'ipotesi lunare di una prorogatio sine die a pesce lesso Gentiloni. Le cose sono assai più semplici: o la destra ha i numeri, o ce l'ha l'arco parlamentare che (almeno ufficialmente) gli si contrappone. In mezzo c'è solo il famoso inciucio Pd-Forza Italia. Che poi non si capisce neppure perché chiamarlo inciucio, dato che è vero che i due contraenti fanno parte di due schieramenti formalmente contrapposti, ma la matrice euro-liberista è la stessa.

Sta di fatto che Berlusconi attacca M5S ma mai il Pd, ricambiato in questo da Renzi, che casomai (oltre ai Cinque Stelle) attacca Salvini. Pur se sempre sdegnosamente negato, l'inciucio tra queste due forze sistemiche già c'è, se ne sono resi conto anche i bambini. E le bambine. Tant'è che pure la Meloni piagnucola in un angolo contro i possibili e probabili tradimenti dello zio Berlusconi. 

Ed a proposito di zii, il problema è che ci sono pure le zie. Quella che si è autonominata "zia d'Italia", cioè la peggiore di tutte, la più-europeista Emma Bonino, sembrerebbe la candidata premier di Berlusconi nel caso l'accordo con il Pd (e cespugli vari) avesse successo. La notizia è stata diffusa ad arte dagli stessi berlusconiani, per chiarire da un lato che i tempi di un Pd a Palazzo Chigi sono ormai finiti, e dall'altro che lui vuole ingraziarsi fino in fondo l'oligarchia eurista. 

Manovre preliminari si registrano però anche sull'altro versante, quello dell'opzione numero tre. Certo, i dominanti vedono questa soluzione solo come l'ultima spiaggia, ma i Cinque Stelle sembrano crederci, attestandosi nel caso sul nome del primo ministro e chiamando "contratto sul programma" un accordo politico col Pd che ormai non è più un tabù. Sia chiaro, chi scrive ritiene quest'ultima un'esercitazione senza speranza, ma il tentativo pentastellato c'è e va segnalato.

Ovvio che sia l'opzione numero due che quella numero tre nascerebbero entrambe nel segno del "più Europa". Più problematico, da questo punto di vista, un governo della destra. Quest'ultimo avrebbe invece la sua caratteristica fondamentale nel turbo-liberismo (flat tax, privatizzazioni, eccetera) e nel securitarismo di matrice poliziesca. 

Cosa hanno in comune queste tre ipotesi? Essenzialmente due cose: che una è peggiore dell'altra, che nessuna di queste potrebbe davvero consolidarsi come governo di legislatura. E questa è in fondo l'unica buona notizia che possiamo dare.

Dopo le elezioni la pressione europea, più precisamente quella dell'asse (a trazione tedesca) Parigi-Berlino, diverrà asfissiante. L'ultimo episodio che ce lo conferma è la recente nomina di Luis de Guindos - ministro di quel governo Rajoy così fedele alla Merkel - alla vicepresidenza della Bce. E' questo un tassello, probabilmente decisivo, della strategia che mira a portare al posto di Draghi, nell'autunno 2019, il falco Jens Weidmann, attuale presidente della Bundesbank. Le conseguenze per l'Italia, insieme alle scelte che bollono in pentola sul ministro delle finanze europeo e sulla trasformazione del MES in una sorta di Fondo Monetario Europeo non saranno certo trascurabili.

Nessuna delle tre possibili coalizioni di governo è attrezzata a far fronte a questo passaggio. Tant'è che tutti - ma proprio tutti - hanno preferito una campagna elettorale basata su scandali e scandaletti, su promesse quasi più risibili di chi le propone, sull'esasperazione del tema migranti, su un antifascismo truccato assai. Tutto pur di non parlare della gabbia europea che opprime l'Italia, ed in primo luogo le classi popolari del nostro Paese.

Oggi, perfino la vignetta di Giannelli sul Corsera (vedi qui sotto) ridicolizza la 
strumentalità di questa riscoperta di un antifascismo a misura dei dominanti. Una vera pagliacciata, probabilmente insufficiente però a risollevare i consensi del Pd.

Sull'Europa, invece, si è assistito ad una specie di revival degli apologetici canti di moda negli anni ottanta/novanta del secolo scorso. Quasi questi dieci anni di crisi non ci avessero insegnato nulla. Il Pd è tornato a sbandierare gli "Stati Uniti d'Europa", Berlusconi è andato a Bruxelles a baciare i piedi a chi di dovere, Di Maio ha parlato dell'Europa come della "nostra casa". 

Non votare loro e i loro alleati è dunque il minimo che si possa fare. Ma per questo rimando alla posizione espressa da Programma 101.

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22.2.18

ALLARMI SON FASCISTI di Piemme

C'era da aspettarselo che il miserabile misfatto di Macerata innescasse una spirale di scontri tra neofascisti e antifascisti. Ecco dunque i pestaggi incrociati di Palermo e Perugia. Se essi occupano le prime pagine dei mass media non è un caso. 

Non c'è di mezzo solo la  compulsione ossessiva dei media per la cronaca nera (che com'è noto è uno stratagemma per aumentare vendite e ascolti). 

E' che il regime neoliberista, di cui i media mainstream rappresentano le falangi della sua egemonia ideologica, ha bisogno, tanto più alle porte delle elezioni, di inculcare nella testa dei cittadini la sensazione che fuori dal perimetro sistemico c'è il salto nel buio, nella fattispecie il timore degli estremismi, tanto più se opposti.

Lo si vide negli anni '70 quanto il mantra degli "opposti estremismi" fosse stato funzionale alla strategia della tensione e quindi di conservazione delle classi dominanti. Ma se allora si trattò di una tragedia, ora essa si ripete come farsa. Una farsa orchestrata dentro la quale, ahinoi, certa sinistra radicale ha deciso di far parte come protagonista, contribuendo così al depistaggio ideologico di massa.

E' vero che il liberismo agonizzante abbia in pancia, mutatis mutandis, il pericolo di una rinascita dei fascismi. Ed è quindi necessario che le forze democratiche e rivoluzionarie debbano stare in guardia. Ma fare qui e ora dell'antifascismo non solo un discorso ma una pratica prioritaria, come abbiamo provato a spiegare, è un enorme errore politico.

Sono forse le formazione neofasciste, oggi giorno, il nemico principale? No, non lo sono. Sono nemici secondari che dobbiamo contrastare sfidandoli sul terreno dell'egemonia politica, sociale e culturale; diventando noi i campioni della lotta contro il nemico principale, il sistema neoliberista, i suoi meccanismi ed i suo fantocci politici.

Invece, partecipando alla commedia dell'antifascismo, oggi come oggi, in assenza di una vera minaccia fascista, si rischia diventare funzionali al sistema neoliberista e globalista, di apparire come un'ala radicale delle élite liberali.

Il diritto all'autodifesa, in caso di aggressioni fasciste o di regime, è sacrosanto in ogni circostanza, ma non in ogni circostanza è legittimo —come invece postula un certo "antifascismo militante"— usare l'aggressione e l'attacco preventivo come pratica politica.

Non si deve abbracciare il pacifismo per capire che la violenza politica occorre maneggiarla con cura, che se usata nei modi sbagliati e nelle situazioni sbagliate è un fatale boomerang. La ragione mi pare  semplice: il passaggio dallo scontro verbale a quello fisico, in una situazione di pace sociale e di letargia delle masse, è un salto enorme, oserei dire qualitativo. Quindi una pratica politicamente suicida.

Mao Zedong, cito a memoria, mi pare disse: «La politica è guerra senza spargimento di sangue mentre la guerra è politica con spargimento di sangue». 

Chi oggi ritiene sia giusto, passare alla "politica con spargimento di sangue" è un imbecille o, peggio, un provocatore.




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20.2.18

EMBRACO: NON C'È PIÙ RELIGIONE ...


Quindi la multinazionale a stelle e strisce WHIRPOOL ha sbattuto la porta in faccia, non solo alle maestranze ma pure al governo. Chiusura dello stabilimento piemontese confermata,  497 licenziamenti in tronco, a causa della delocalizzazione in Slovacchia. 
Vicenda istruttiva assai, e sotto diversi profili.

E' anzitutto un classico esempio che più chiaro non si può di come funziona una grande azienda mulitinazionale: profitto prima di tutto, disprezzo per i lavoratori, totale indifferenza degli interessi nazionali, del bene comune, delle leggi del Paese. Per quanto riguarda l'Italia  è d'obbligo ricordare quanto recita la sua legge suprema. Recita l'Art.41 della Costituzione:
«L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». 
Cosa accade, per meglio dire, cosa dovrebbe accadere, a chi viola le leggi di uno Stato? Che lo Stato lo sanziona. Multinazionali comprese, anzi, esse anzitutto.
E invece che abbiamo? Che lo Stato, essendo nella disponibilità, non del popolo lavoratore, ma di una casta di politici ruffiani e servi del grande capitalismo globalizzato, non alza un dito. Peggio asseconda le multinazionali. 

Guardate questa faccia di bronzo del ministro Calenda. E' indignato perché gli americani l'han preso a pesci in faccia. E che ti fa? Ti dice che egli non contesta minimamente il diritto della multinazionale a spostare in Slovacchia lo stabilimento e la produzione e poi corre, pensate un po', dai suoi padroni di Bruxelles a chiedere il permesso per metterci una pezza, garantendo che non si tratterebbe di "aiuti di stato".

Tutto come nel copione. 

Ma gli operai che ti fanno? Sperano in Calenda, fanno affidamento su una casta di servi politici che in nome del libero mercato e della globalizzazione ha consentito il più grande saccheggio privatistico del Paese. Chiedono l'elemosina andando ancora dietro a sindacati che a loro volta, nei decenni e non da ora, hanno avallato ogni sorta di rapina ai danni della classe operaia e della nazione. 

Non vi viene in mente, cari operai, di prendere in mano la fabbrica? Non vi passa per la testa di occuparla, ma non in segno protesta, no, bensì per autogestirla e farla funzionare assieme a tecnici, manager e impiegati che o verranno lasciati a spasso o dovranno emigrare... in Slovacchia, sguatteri anch'essi della multinazionale? Dovrebbero quindi, le maestranze, esigere la nazionalizzazione (si proprio l'esproprio) della fabbrica di Riva di Chieri, assicurandosi che lo Stato aiuti l'azienda autogestita e nazionalizzata in quanto a sbocchi di mercato e  sinergie con altri settori industriali.

Autogestione + nazionalizzazione, questa è l'unica soluzione, non solo per difendere il diritto al lavoro, ma perché quel che essa produce serve alla collettività, è quindi fabbrica di interesse nazionale, e ciò che è di interesse nazionale lo Stato ha l'obbligo di tutelare.

Siccome non c'è più una coscienza di classe tra i lavoratori, meno che meno c'è contezza dell'interesse generale e amor patrio in seno alla classe dominante ed ai suoi fantocci politici, il Paese va in malora, procede verso il baratro.

Cosa mai dovrà accadere per invertire questa rotta?


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14.2.18

LE RADICI DEL NOSTRO PATRIOTTISMO

«La repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità: propugna l’italiana».

Così recita il preambolo della Costituzione della Repubblica Romana, nata con la rivolta popolare del 9 febbraio 1849. Fu il canto del cigno della rivoluzione europea del 1848, schiacciata infatti dall'esercito francese di Napoleone III, giunto in soccorso del Papato.


Tengano a mente queste parole certi sinistrati senza memoria storica che equiparano il patriottismo al nazionalismo xenofobo e fascistoide. Rivendichiamo questo patriottismo internazionalista e repubblicano che fu alla base del "Risorgimento caldo" come una delle fonti spirituali a cui ci abbeveriamo. A maggior ragione lo rivendichiamo poiché esso venne seppellito da quello "freddo", quello borghese e monarchico, che userà la vanagloria nazionalista per soggiogare il popolo (quello del Mezzogiorno col ferro e col fuoco) e giustificare le sue sanguinarie imprese coloniali.
Alla memoria dei martiri della Repubblica Romana vogliamo dedicare questa magistrale interpretazione di Nino Manfredi nel film IN NOME DEL POPOLO SOVRANO.

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13.2.18

DESTRE AL GOVERNO? di Leonardo Mazzei



«Nessuna stabilità dunque da una vittoria della destra. Anzi, quasi certamente una maggiore instabilità di quella che avremmo con la palude di "governi del presidente" o similari. Buffo che dopo un quarto di secolo di Seconda Repubblica possa tornare a galla un reperto archeologico di nome Silvio Berlusconi. Buffo, ma in qualche modo logico. Perché lo schifo di questa stagione politica, che con lui è cominciata, forse è proprio con lui che dovrà finire».
Da settimane dicon tutti le stesse cose: (1) che dalle urne del 4 marzo non verrà fuori una maggioranza parlamentare, (2) che saranno perciò necessarie alleanze diverse da quelle presenti sulla scheda elettorale, (3) che forse nascerà un non meglio precisato "governo del presidente", (4) che in ogni caso l'instabilità politica caratterizzerà anche la prossima legislatura.

Ma siamo proprio sicuri che andrà così? Tolto il quarto punto, sul quale possiamo scommettere, gli altri tre si basano su una fotografia vecchia di un paio di mesi. Foto oggi sbiadita assai, perché se resta vero che la coalizione di destra tutto sembra fuorché un'alleanza di governo, i due competitors sistemici —la micro-coalizione a guida piddina ed M5S— tanto competitivi non sembrano proprio.

Piddinia City le han provate ormai tutte: il Renzi populista come il Renzi europeista, quello che prende il treno per farsi vedere in giro per l'Italia e quello che sta chiuso nel bunker mandando avanti pesce-lesso-Gentiloni. Ma non gliene funziona una, perché  —ricordiamoci il 4 dicembre 2016— il Bomba resta il politico più odiato dagli italiani, mentre da un pesce lesso più di tanto sarebbe irragionevole attendersi.

Scherzi a parte, il dato di fondo è che il Pd è visto (e giustamente) come il vero perno del sistema, di un liberismo governante ben sposato con un indefettibile eurismo, il tutto simboleggiato oggi dall'alleanza con la turbo-euroliberista Bonino. In fondo la parabola del Pd va letta anche guardando al resto d'Europa, dove i partiti "fratelli" del PSE hanno fatto registrare nel 2017 un 20,5% con la Spd in Germania ed un simpatico 7,4% con il Partito Socialista in Francia. Perché, Renzi a parte (che comunque ci mette del suo, e gliene saremo per sempre grati), meravigliarsi se anche la curva del Pd tende al 20%?

Del resto, cosa dice il Partito democratico in questa campagna elettorale, oltre ad attaccare M5S su certe pittoresche incoerenze dei pentastellati? Dice che non farà inciuci, e qui tutti a sbellicarsi dalle risate. Magari non li farà non avendone la possibilità, ma tutti sanno che il progetto renziano è solo uno, quello dell'accordo con Forza Italia e dintorni. D'altronde è questa l'unica possibilità di governo per un Pd a guida renziana. Certo, è vero, in linea teorica non possiamo neppure escludere un governo Pd-M5S (con l'aggiunta della smorta pattuglietta di LeU), ma in quel caso Renzi dovrebbe lasciare alla svelta la segreteria del Nazareno.

Insomma, quello messo in pista dal fiorentino è un partito esausto, impossibilitato a vincere, che può solo auspicare che la destra non raggiunga la maggioranza assoluta, sperando poi di avere i numeri mettendo assieme i propri seggi con quelli dell'ex-cavaliere. Il problema è che per impedire un successo pieno della destra servirebbe un M5S competitivo nei collegi del sud, cioè laddove il Pd è del tutto fuori gioco. Altro che attaccare Di Maio! Può sembrare paradossale, ma a Renzi servirebbe un Movimento Cinque Stelle vincente almeno in una quarantina di collegi uninominali della Camera. Ma è realistica questa ipotesi? A parere di chi scrive, assolutamente no.

E perché no? Perché il grosso dei consensi M5S li ha ottenuti in passato presentandosi in alternativa secca al sistema dominante. Un appeal che oggi non c'è più. E non c'è più perché nessuno sa cosa farsene di un movimento che con la svolta di Di Maio è diventato —mutatis mutandis— una sorta di Democrazia Cristiana del ventunesimo secolo.[1]  Certo, sarebbe assurdo negare che anche il 4 marzo in tanti voteranno M5S pensando di dare un voto antisistemico. Questo avverrà per la mancanza di alternative credibili. Avverrà, ma assai meno che in passato, quando il voto a M5S era oggettivamente un voto contro le forze dominanti. Oggi, con la disponibilità a fare da ruota di scorta di un sistema politico sempre più zoppicante, le cose sono del tutto diverse. E la percezione di questa svolta è presente ormai in strati non trascurabili del precedente elettorato di M5S.

I sondaggi vanno sempre presi con la massima prudenza (ne parleremo tra poco), tanto più in Italia dove abbiamo i sondaggi low cost, quelli realizzati con 1.500 telefonate, quelli che vorrebbero appassionarci ai loro settimanali spostamenti millimetrici che nulla cambiano nella sostanza. Sono gli stessi istituti demoscopici che nel 2013 sottostimarono clamorosamente M5S dato al 14% contro il 25% delle urne. Gli stessi che nel 2016 non seppero vedere la valanga di NO in arrivo al referendum costituzionale. Bene, la mia impressione, per quel che vale, è che stavolta il dato dei Cinque Stelle sia invece sovrastimato alla grande. 

In ogni caso, che qualcosa non torni nei sondaggi tutti possono capirlo. Prendiamo l'ultimo uscito ieri, realizzato da Demopolis. Tanto uno vale l'altro visto che tutti dicono più o meno le stesse cose. Secondo questo sondaggio la coalizione di destra totalizzerebbe il 37,2%, M5S avrebbe il 28,3%, la mini-coalizione piddina il 27,5%, LeU il 5,8%. Totale 98,8%.

Vi sembra realistico? Vi sembra possibile che l'insieme delle altre liste raccolga solo l'1,2%? Ma per favore! Sorvolando su quelle presenti solo in pochissimi collegi, vi sono almeno sette liste in grado di ottenere un minimo di risultato. Semplificando, ve ne sono quattro a sinistra (Potere al Popolo, Partito Comunista, Per una Sinistra Rivoluzionaria, Lista del Popolo) e tre a destra (Casa Pound, Forza Nuova e Popolo della Famiglia). Personalmente penso che nessuna di queste arriverà al 3%, ma non mi stupirei di certo se Potere al Popolo e Casa Pound si avvicinassero al 2%. In ogni caso mi sembra che ipotizzare almeno un 6% per l'insieme delle liste minori sia piuttosto ragionevole.

Ma se così è, ne consegue che almeno qualcuno dei tre poli risulterà assai più magro di quel che ci dicono i sondaggi. Certo, in teoria questo dimagrimento potrebbe anche essere ripartito proporzionalmente tra di essi, lasciando dunque inalterati i rapporti di forza descritti dagli istituti demoscopici, ma la cosa mi pare poco probabile. Più verosimile invece, per le ragioni già descritte, che il dimagrimento si concentri su M5S e in secondo luogo sul Pd. Ma se così andranno le cose, alla destra non sarà neppure necessario raggiungere quel 40% di voti che secondo molti sarebbe la soglia indispensabile per vincere nel 70% dei collegi uninominali, conseguendo così la maggioranza assoluta dei seggi. Se gli altri due competitors nel maggioritario stanno sotto di 10 punti e passa su scala nazionale, è ben difficile che essi possano raccogliere complessivamente oltre il 30% degli eletti in questi collegi. Dunque, quel 37% che oggi appare ancora insufficiente per assegnare la vittoria piena alla destra, alla fine potrebbe invece bastargli.

Naturalmente la mia è solo un'ipotesi, ma non credo troppo infondata. Quali sarebbero, nel caso, le conseguenze di un simile risultato?

In primo luogo, la coalizione di destra, nata per raggranellare seggi ma non per governare, sarebbe invece costretta a farlo, mettendo subito in piazza le differenze e gli elementi inconciliabili che la contraddistinguono. Uno spettacolo di un certo interesse, tenuto conto che il principale di questi nodi si chiama Europa.

In secondo luogo il Pd imploderebbe e Renzi dovrebbe lasciare la segreteria. Ma la crisi di questo partito non si arresterebbe di certo con il ritorno di qualche zombie alla Veltroni. Essa invece continuerebbe, perché è una crisi che non dipende soltanto dal fiorentino.

In quanto ad M5S non sappiamo, ma certo non è difficile immaginare l'inizio della diaspora. Processo tutto sommato positivo, specie se le componenti più avanzate del vecchio movimento sapranno in qualche modo reagire alla svolta del Di Maio. Il quale —ma qui le previsioni sono più difficili— finirebbe forse anch'egli in soffitta.

In ogni caso, ribadirlo è superfluo, la mia è solo un'ipotesi. Se si realizzerà l'avvio della nuova legislatura sarà ben diverso da quello immaginato un po' da tutti. Il che non significa, però, che vi sarà "stabilità". Anzi! Essa non vi sarà affatto. Intanto la destra litigherà su chi dovrà fare il premier, poi verrà il turno della composizione del governo, infine il nodo del programma e del mantenimento delle mirabolanti promesse elettorali del duo Berlusconi-Salvini. Il tutto dentro quella gabbia europea che oggi l'ex-cavaliere applaude, mentre il Salvini la vorrebbe adesso "riformare".

Nessuna stabilità dunque da una vittoria della destra. Anzi, quasi certamente una maggiore instabilità di quella che avremmo con la palude di "governi del presidente" o similari. Buffo che dopo un quarto di secolo di Seconda Repubblica possa tornare a galla un reperto archeologico di nome Silvio Berlusconi. Buffo, ma in qualche modo logico. Perché lo schifo di questa stagione politica, che con lui è cominciata, forse è proprio con lui che dovrà finire.     


NOTE

[1] Mi rendo conto che il paragone M5S-DC possa sembrare assai strambo. Io qui mi riferisco essenzialmente a tre cose: (1) l'assoluto ed insopportabile perbenismo tipico del nuovo corso pentastellato, (2) l'interclassismo dichiarato cui corrisponde però un rapporto privilegiato con l'establishment economico, (3) una sorta di vocazione "centrista" in cui il "né di destra né di sinistra" serve solo a dire signorsì al potere delle oligarchie.

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10.2.18

PER UN NUOVO ANTIFASCISMO di Moreno Pasquinelli

Ci mancava solo l'americanata in stile suprematista bianco del "lupo solitario marchigiano" ad intossicare una campagna elettorale già inquinata di suo da pagliacci che discutono del nulla.

Cosa pensassimo del fascista rinato che si è messo a fare il tiro al bersaglio contro tutti i passanti di colore che incontrava per strada l'abbiamo detto: un crimine infame. 

Che quanto accaduto a Macerata avrebbe mobilitato gli antifascisti era inevitabile. Alla fine la Questura ha autorizzato la manifestazione che si svolgerà oggi in quella città. Era in forse, a causa di una gravissima e sintomatica dichiarazione del piddino Ministro degli interni Minniti, questa: 
«Mi auguro che chi ha annunciato manifestazioni accolga l’invito del sindaco, se questo non avverrà, ci penserò io ad evitare tali manifestazioni».
Gravissima perché il divieto (formalmente anticostituzionale) opposto agli antifascisti avrebbe fatto il paio con la presenza elettorale (sostanzialmente anticostituzionale) dei fascisti del secondo e  terzo millennio. Sintomatica perché essa ci dice come crescano certe pulsioni sbirresche e stato-fortiste nel corpaccione di un regime neoliberista che, tra gli altri, si distingue per essere uno dei meglio attrezzati nella repressione del conflitto sociale e di strada. Non fosse che non siamo abituati ad usare alla carlona le categorie politiche, verrebbe voglia di parlare di demofascismo.

Detto che auguriamo il successo della ahinoi liturgica manifestazione di oggi a Macerata, due parole sull'antifascismo e gli antifascisti. 

Amadeo Bordiga fu forse troppo severo  a dire che "L’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo". Opinione condivisa, seppure declinata in senso liberale dallo storico Renzo De Felice.[1] Il giudizio venne considerato un insulto dai militanti rivoluzionari che negli anni '70 condussero una battaglia senza quartiere contro i neofascisti del tempo. Sembrava loro che ci fosse un'effettivo e incombente pericolo fascista alle porte. La storia ci dirà che non era vero, che la vera minaccia era un'altra e di diverso segno: la radicale offensiva neoliberista che infatti dilagherà con gli effetti che sappiamo.

Oggi è diverso. Oggi siamo al tramonto di questo lungo ciclo liberista, un tramonto dovuto non all'avanzata di un'alternativa socialista, proletaria e democratica, ma a causa di una crisi sistemica (economica, sociale e politica) che potrebbe intaccare le stesse fondamenta della civilizzazione capitalistica. Siamo alle porte di un passaggio d'epoca, e tutto diventa possibile. Oggi sì esiste il carburante sociale per una mobilitazione reazionaria delle masse: la pauperizzazione senza scampo del ceto più numeroso della società: i ceti medi. Faccio notare che pauperizzazione non equivale, come comunemente si pensa, alla proletarizzazione.

Se questo carburante entrasse in contatto con un comburente avremmo l'incendio generale, quella che abbiamo chiamato "mobilitazione reazionaria delle masse". I neofascisti o qualche loro parente, qui sta il punto, potrebbero fungere da comburente (sottolineo il condizionale). Non è quindi sbagliato affermare che le forze rivoluzionarie debbono stare in guardia ed attrezzarsi per evitare che questa crisi di civiltà, che si manifesta anche come dissoluzione della democrazia costituzionale, sfoci nel caos che precede una dittatura sì postcapitalistica ma di segno neo-feudale, dove la potente élite finanziaria fungerà da nuova aristocrazia.

Ma come si combatte e si sventa questa minaccia? Si combatte e si sventa costruendo una forza politica dirigente che contenda ai neofascisti (o chi per loro) ogni centimetro di spazio politico, che impedisca loro di rappresentare e prendere la testa dei ceti medi pauperizzati, la cui esplosiva mobilitazione di massa è nell'ordine delle cose. Come ha scritto Sandokan su questo blog non c'è alternativa: per evitare che il mostro prenda forma occorre uccidere il  liberismo che lo porta in pancia. Sì quindi, tanto più da noi dove il fascismo nacque e affonda le sue radici, ad un antifascismo attivo, operante, intelligente. 

Non lo è quello che vediamo risorgere, che pare una scadente parodia di quello degli anni '70. Un antifascismo di maniera, tutto schiacciato sui "valori", ma i cui valori, a ben vedere, sono impastati con quelli della narrazione ideologica con cui il neoliberismo ha giustificato la sua egemonia. L'etica dei diritti umani, l'individualismo anarchicheggiante, l'edonismo consumistico, la ripugnanza cosmpolitica della nazione, il disprezzo per lo Stato. Con questi "valori" lo spirito delle élite neoliberiste si è impossessato come un demone del "corpo proletario". Un corpo che non c'è più e non potrà risorgere nella forma di prima.

Se i neofascisti avanzano è perché appaiono come i soli che rifiutano questi "valori" che vano perdendo la loro presa sulle larghe masse, che larghi settori di popolo considerano già adesso "disvalori". Essi si fanno largo perché sembrano i soli a raccogliere non solo il disagio e l'ansia di chi sta in basso, ma le richieste di sicurezza sociale, di sentirsi parte di una comunità nazionale, quindi di uno Stato che tuteli chi di questa comunità fa parte. 

Siamo così giunti al cuore della questione. L'antifascismo risorgente pretende e si illude di battere i neofascisti rifiutando come reazionarie le domande che salgono dalle viscere della società, opponendo loro, addirittura quali fattori identitari, proprio quei disvalori. Un antifascismo cosmopolitico, immigrazionistico, antinazionale antistatalista è condannato non solo a perdere, ma a fungere da truppa ausiliaria delle élite neoliberali.

L'antifascismo attivo, operante, intelligente deve, al contrario, accogliere le spinte che salgono dal basso, anzitutto dai settori falcidiati dalla crisi e più indifesi, fare propri, contro il crescente disordine sociale, i bisogni di sicurezza, di solidarietà comunitaria, di nazione e di Stato. Solo accogliendoli si può pensare di declinarli e indirizzarli in senso democratico, egualitario e socialista. Solo un patriottismo rivoluzionario può tenere testa al nazionalismo sciovinista e xenofobo.

Sarà possibile questa inversione di rotta delle sinistre radicali? Possibile sì, ma altamente improbabile perché si tratta di una vera e propria radicale palingenesi. Sarà impossibile, questa rinascita, se in tempi politici non entrerà in scena l'agente fermentante, il gramsciano intellettuale collettivo attorno al quale raggruppare nuove forze, che quelle vecchie sono oramai destinate a miglior vita. Detto altrimenti occorre un partito rivoluzionario, che sia il perno di una più vasto fronte popolare.

Lo ripetiamo: nella crisi si civiltà vincerà chi saprà mettere ordine nel disordine.

NOTE

[1] «Il fascismo ha fatto infiniti danni, ma uno dei danni più grossi che ha fatto è stato di lasciare in eredità una mentalità fascista ai non fascisti, agli antifascisti, alle generazioni successive anche più decisamente antifasciste. Una mentalità di intolleranza, di sopraffazione ideologica, di squalificazione dell'avversario per distruggerlo».
Intervista sul fascismo. pp 6-7. Laterza 1975 . 





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5.2.18

IL MOSTRO DI MACERATA E L'ANTIFASCISMO di Piemme

Berlusconi minimizza sostenendo che si tratta di uno squilibrato mentale; i fascisti che giustificano la mancata mattanza; quelli che lo condannano come atto criminale; Salvini e la Meloni che dicono che la colpa è dell'immigrazione e di chi la favorisce; il Saviano che rimprovera a Salvini di essere il mandante morale; l'estrema sinistra, sulla stessa scia, se la prende tuttavia anche coi "complici silenti"; Di Battista che in quanto a ignavia supera tutti quanti. Ci sarà infine qualche cretino che griderà al complotto di qualche servizio segreto per favorire il Pd nelle urne.

C'è poi chi equipara il gesto del mostro di Macerata e quelli disperati degli islamisti riconducibili all'ISIS. La similitudine sta secondo me altrove: Traini, colpendo ogni immigrato che gli è capitato a tiro ha emulato le pratiche della destra neonazista e suprematista americana.

Dopo l'americanizzazione delle sinistre, abbiamo quindi l'americanizzazione del fascismo, lo sceriffo bianco fai date. Sintomo evidente di una società spappolata, il cui tessuto si va progressivamente sfasciando, producendo un'individualismo nichilista della morte.

Non c'è dubbio che questo Luca Traini, oltre ad essere un infame —come definire altrimenti chi fa il tiro al bersaglio con gente inerme e indifesa— è uno "squinternato"; uno squinternato che fa un'americanata ma con delle idee politiche fasciste, uno che per di più, solo un anno fa, era candidato della Lega di Salvini.

La qual cosa che ci dice? Ci dice che nel marasma italiano, pur tra stop and go, si va configurando un ectoplasma politico reazionario, diviso su molte questioni ma con un collante ideologico e sociale comune: la xenofobia. Ora Di Stefano si agghinda col doppio petto, ma nessuno deve dimenticare che nel 2011, a Firenze, il suo simpatizzante Gianluca Casseri sparò e uccise due ragazzi senegalesi. Ora Casa Pound è un avversario elettorale della Lega, ma non si deve scordare che nel 2015 Salvini e i "fascisti del terzo millennio" siglarono un patto politico il cui marchio di fabbrica era "basta immigrazione! prima gli italiani!". Il patto si è rotto perché Salvini decise di allearsi con Berlusconi. Vedrete che se questa alleanza dovesse rompersi, a crisi sociale incalzante, l'anima nera della Lega riporterà in auge quel perverso sodalizio. La barbarie sociale neoliberista, non solo produce anime nere, le spinge ad assembrarsi, a fare fronte.

C'è quindi una logica sociale, oggettiva, nella follia terrorista del "lupo solitario" Luca Traini. Guai a non vederla! Guai a coloro che se gli parli della xenofobia montante fanno spallucce.

Antifascismo necessario quindi, ma quale? Ce ne sono almeno due, uno può vincere, l'altro destinato a farci perdere. Per capire quali essi siano si guardi questo breve filmato sulla mobilitazione avvenuta ieri a Genova. Una grande e combattiva manifestazione indetta per protestare contro il crimine di Macerata. Pare che quelli del Pd siano stati cacciati dal corteo. Cosa buona e giusta. Si ascoltino quindi i due manifestanti che parlano al microfono. Sono l'icastica rappresentazione dei due antifascismi di cui parlo: quello patriottico del vecchio partigiano, e quello retorico e declamatorio difeso da un giovane. Ahimé non è quello partigiano che ha l'egemonia.

No so se faremo in tempo a fermare il mostro che la putrescente società liberista e liberale nutre nella sua pancia.

So che per impedire il parto si dovrebbe uccidere la madre che lo tiene in grembo. So che questo parto è agevolato da quelle sinistre bastarde le cui cifre identitarie sono oramai il disprezzo dello stato e della nazione, l'accoglienza a prescindere col mito suicida della "società multietnica", il cosmopolitismo liberal-cattolico al posto dell'internazionalismo.

So che per evitare una nuova tragedia storica occorre anzitutto rimettere ordine nei pensieri, sbarazzarsi dei fiori oramai appassiti e coltivarne di nuovi. Occorre ricostruire una nuova comunità politica dalle forti radici democratiche, rivoluzionarie e patriottiche.
Faremo in tempo?

Fonte: sollevazione

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30.1.18

DOPO LA BREXIT: CRESCE L' OCCUPAZIONE IN GRAN BRETAGNA

Ve lo ricordate quel che dicevano gli avversari della Brexit? Il Regno Unito ci lascerà le penne, l'economia entrerà in recessione, aumenteranno disoccupazione e povertà, i capitali fuggiranno all'estero. Più o meno gli stessi sfracelli che gli euristi fantasticano in caso di uscita dell'Italia dalla Ue e dall'eurozona.

Sta avvenendo invece il contrario, come dimostra questo report della Reuters. Sul fronte del lavoro la disoccupazione non era così bassa da quattro decenni. E i salari? Cresciuti ma secondo alcuni analisti meno dell'inflazione, che viaggia al 3,1%.



L'occupazione nel Regno Unito aumenta vertiginosamente, ed i salari crescono
di Andy Bruce e David Milliken

LONDRA (Reuters) - Il numero di occupati in Gran Bretagna è salito così come i salari, dati che potrebbero incoraggiare la Banca d'Inghilterra (BoE) a pensare che i tassi di interesse dovrebbero essere rialzati a breve.
La sterlina ha toccato 1,41 dollari, il livello più alto rispetto al dollaro USA dal referendum sulla Brexit del 2016, mentre i prezzi dei titoli di stato britannici sono scesi al livello più basso da ottobre.
L'economia britannica ha rallentato nel 2017 quando la maggiore inflazione —causata dal calo della sterlina dopo il referendum — ha danneggiato il potere d'acquisto dei consumatori. 
L'ufficio nazionale di statistica (ONS) ha dichiarato che il numero degli occupati è salito di 102.000 unità nei tre mesi precedenti a novembre, l'aumento maggiore da luglio, ciò che ha portato il numero di occupati a 32,2 milioni.
I posti di lavoro a tempo pieno hanno costituito la maggior parte dell'aumento, ed i lavoratori tra i 50 e i 64 anni sono coloro che ne hanno beneficiato maggiormente.
Queste cifre hanno alleviato le preoccupazioni sul fatto che il mercato del lavoro in Gran Bretagna stesse perdendo terreno.
«I numeri degli occupati ancora una volta suggeriscono chiaramente che l'economia del Regno Unito procede su una base più solida di quanto molti avevano previsto in seguito al voto referendario sulla UE», ha detto James Athey, senior investment manager presso Aberdeen Standard Investments.
La BoE ha aumentato i tassi di interesse per la prima volta dal 2007 a novembre, poiché la maggior parte dei suoi policymakers pensava che il forte calo della disoccupazione avrebbe presto iniziato a far salire i salari —una previsione che i dati di mercoledì giustificano, ha aggiunto Athey.
La maggior parte degli economisti si aspetta che il prossimo rialzo dei tassi della BoE ci sarà verso la fine di quest'anno, ma alcuni dicono che potrebbe arrivare anche a maggio.
L'ONS ha dichiarato che le retribuzioni dei lavoratori, esclusi i bonus, sono aumentate del 2,4% annuo nei tre mesi precedenti a novembre, l'aumento maggiore dal dicembre 2016.
Includendo i bonus, la crescita delle retribuzioni è rimasta al 2,5%.
«Tuttavia, siccome l'inflazione rimane superiore alla crescita delle retribuzioni, il valore reale dei salari continua a diminuire», ha dichiarato lo statista dell'ONS David Freeman.
A novembre, l'inflazione ha superato la crescita dei salari, raggiungendo il 3,1%, il massimo da quasi sei anni. Misurando entrambe le serie di dati nei tre mesi precedenti a novembre, le retribuzioni in termini reali sono diminuite dello 0,5% rispetto all'anno precedente.
I salari, rapportati all'inflazione, rimangono al di sotto dei livelli precedenti alla crisi finanziaria del 2007-09.
I dati mostrano anche che il tasso di disoccupazione si è attestato al 4,3%, il minimo da quattro decenni.
Samuel Tombs, un economista con Pantheon Macroeconomics, ha detto che il tasso di crescita annuale dei salari, esclusi i bonus, nei tre mesi fino a novembre rispetto ai tre mesi precedenti, è salito al 3,4%. Ciò suggerisce che non passerà molto tempo prima che la BoE alzi anche il tasso di interesse salirà al 3%.


*Traduzione a cura di SOLLEVAZIONE



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